- STORIA -
Le Origini
Torchiarolo è un piccolo centro attualmente della provincia di Brindisi facente anticamente parte della Contea di Lecce.
Le origini del nome non sono chiare: c’è chi afferma che il nome derivi dai canti funebri (definiti appunto torkialul). La più antica testimonianza risale al XII secolo con la presenza di toponimi quali Turchellis (1133), Turcharuli (1180), Turchiarolo (1182) che inducono a immaginare nel nome la derivazione dal latino torculare che indicherebbe la presenza nella zona di un palmento e/o di un frantoio. L’Arditi a riguardo è dell’idea che gli addetti a questo lavoro venissero chiamati in latino turculum e torcularius, chiamati poi volgarmente torchiaroli, termine che si estese prima alla contrada e poi al casale che ne derivò.
In un’altra tra le più antiche attestazioni risalente al marzo-aprile 1284 compare la forma genetivale “Turchaeroli”, variante che si diffonderà in contesti latini dalla metà del Seicento con “de Turcareolo”. Secentesca è anche la forma genetivale di “Torchiaroli” del 1611 e “Turchiaruli” del 1622.
La maggior parte degli studiosi sostiene che derivi dall’accezione “de Torchiadoro”, risalente al 1606, cioè “torchio d’oro”, essendo la campagna circostante ricca di vigneti e di ulivi: un nome quindi legato principalmente alle attività tradizionali del luogo. Altri legano il nome erroneamente ai Turchi, anche se il piccolo casale ha lungamente combattuto i Turchi. Ne sono prova le torri di avvistamento (Lo Muccio, databile al XV sec.; Bartoli, databile al XVI sec.), le masserie fortificate (masseria Piutri e masseria Case Bianche), le case-fortezza nel centro antico (di cui rimangono due esemplari in corte di San Domenico e corte Pattini) e lo stemma del paese (che raffigura un turco incatenato a una torre. Bisogna però riconoscere che la minaccia turca si fece sentire maggiormente a partire dal XV secolo, mentre riferimenti al casale si hanno già nel XII.
Gli Edifici Civili
Palazzo Baronale
La storia del palazzo baronale è inscindibilmente legata a quella della torre nella piazza, dal momento che è addossato ad essa. Sorta per meglio difendere il territorio dagli attacchi turchi, la prima descrizione della torre risale al XVI secolo. Come attesta un documento conservato a Madrid, si trattava di un torrione con un accesso sopraelevato rispetto al piano stradale con un ponte levatoio. L’impianto è quadrangolare, con due piani separati da un cordolo a toro, l’estremità superiore ha una serie di archi con barbacani. A reggere l’imposta degli archetti sono peducci sagomati. Il torrione si conclude con una cornice modanata a dentelli e a toro.
A partire dal XIII secolo entrò trai possedimenti della famiglia Cerasoli, e da lì in successione feudale appartenne ai Sambiasi, ai Paladini, ai dell’Antoglietta di Lecce e quindi ai Delli Falconi.
Intorno al XVI secolo l’edificio subì un ampliamento con conseguente trasformazione in residenza nobiliare. La data 1698 che appare sulla facciata del palazzo può essere considerata la data di fine dei lavori.
Il palazzo baronale si sviluppa sul lato destro della torre. La facciata si innesta ad essa tramite la prosecuzione del cornicione a toro marcapiano, riproponendo la stessa scansione.
Risulta così diviso in due piani. La facciata originariamente aveva un aspetto molto più austero e severo, data la mancanza al piano terra di aperture e la scarsità di finestre al primo piano. Di immediato impatto visivo è il grande portale bugnato ad ampio arco a tutto sesto, la cui sommità supera il cornicione marcapiano, interrompendo la monotonia della facciata.
Il portale non è centrale rispetto all‟edificio, si apre nel torrione e consente l‟accesso a un cortile di non grandi dimensioni. Sul portale è scolpito lo stemma in pietra dei Caracciolo: ha una forma ovale, con motivi floreali ed è delimitato ai lati da due putti che sorreggono in alto la corona dell’arme araldica. Al centro è un leone rampante attraversato al centro da una freccia e intorno guarnito da un tralcio. Al pianoterra vi erano gli ambienti utilizzati per
stalle, depositi, magazzini, come emerge da un atto notarile stipulato tra il barone di Torchiarolo, Giuseppe Geofilo, e la Regia Corte, nel quale sono menzionati tra gli altri “aggiustamenti” apportati dai Geofilo al loro palazzo, “una Torre due Quarti con diverse stanze, due magazzini, uno per l'olio e l'altro per il grano”, e due “nevere”, site vicino al palazzo stesso23. Attualmente il piano terra presenta una serie di aperture che hanno alterato l’aspetto originario.
Il primo piano risulta più movimentato per l’apertura delle finestre, ed è ingentilito da un balcone dotato di balaustra. Alcuni ambienti interni “presentano eleganti mensoloni sagomati di sostegno e pregevoli incorniciature includenti mascheroni decorativi. In uno di questi ambienti al piano nobile (quello corrispondente alla seconda finestra di sinistra in facciata) si conserva ancora il fregio pittorico delle pareti che consiste in ampi racemi fogliari intercalati da puttini e da ovali che racchiudono piacevoli vedute paesaggistiche, realizzate con una fattura veloce e abbreviata".
Palazzo Tarantini
Si tratta di un’abitazione civile alle spalle della chiesa del Rosario. Edificio a due piani: a piano terra un ampio portale a tutto sesto, decentrato, immette in un piccolo atrio. A destra del portale, originariamente vi era una finestra con una cornice di pietra modanata, trasformata in porta. Al primo piano due finestre arcuate si affacciano su altrettanti balconi sorretti da barbacani. Gli ambienti superiori presentano esternamente una copertura a tetto spiovente, in qualche modo nascosta da una cortina sorretta da piccole mensole a distanza ravvicinata tra loro.
Le strutture difensive
Nel XV secolo in Terra d’Otranto si avverte sempre di più la minaccia turca. Il Salento e in particolare Otranto rientravano nelle mire espansionistiche del sultano Maometto II, soprattutto perché rappresentavano un efficace approdo per l’assalto agli Stati cristiani d’Europa. Storico è l’attacco a Otranto nel 1480. Seguiranno altri episodi analoghi nell’arco dei secoli successivi in altri centri salentini, tra cui Torchiarolo.
Al XV secolo risalirebbe la costruzione di Torre Lo Muccio sulla strada che porta alla litoranea adriatica. Secondo Marzano, la struttura venne completata dopo il pesante attacco del 1673 su disposizione di Napoli, ma a spese del casale. Le torri di avvistamento rientravano in un progetto più ampio avviato nel XVI secolo sotto Carlo V, per arginare la minaccia musulmana. In alcuni casi vennero utilizzate strutture preesistenti, databili cioè al periodo normanno se non a quello bizantino.
Al XVI secolo risale Torre Bartoli.
Ha un impianto quadrangolare. L’ingresso era posto lateralmente su un piano rialzato al quale si accedeva tramite una piccola rampa oggi andata distrutta; l’intero stabile versa in gravi condizioni di degrado. Allo stato attuale è possibile accedere solo al corpo di fabbrica addossato alla torre, costituito da due ambienti rettangolari voltati a botte e comunicanti tra loro. La presenza di tracce di coloriture permette di capire che l’interno era affrescato. Secondo Marzano sulla sommità vi erano alloggi per le famiglie dei rifugiati.
Dello stesso periodo, secondo Jurlaro, è La Torre nella piazza del paese, databile al XVI secolo.
Il Marzano afferma che dal momento che da Napoli non giunsero disposizioni rilevanti al fine di salvaguardare il casale, furono proprio gli abitanti che decisero di dare una sistemazione adeguata, per quanto possibile, al territorio circostante. Furono quindi fortificate le masserie preesistenti e questo avrebbe permesso non solo la difesa delle singole masserie ma avrebbe permesso anche ai massari di informare il centro abitato in caso di avvistamento. Ogni masseria fu chiusa da un alto muro a secco, il fabbricato si sarebbe dotato di una torre a due piani con piombatoio, come quelle della costa ma di minori dimensioni.
Marzano cita a riguardo Masseria Ittari con larghi e alti muri di recinzione; ebbe la torre, che era anch’essa originariamente di due piani, con caditoie non più visibili per l’avvenuta demolizione del piano superiore; Torre Rinalda, munita di molti fabbricati chiusi anch’essi da muraglia e con la torre oggi non più visibile perché demolita; Masseria Casa di Mosto, con torre porte e finestre protette tutte da caditoie; Masseria Leanzi, con muro e torre a due piani con ingresso ed aperture a primo piano muniti di caditoie; Masseria Case Bianche, con alte muraglie a secco, ebbe anch’essa il torrione cui si accedeva da una grande scala a due rampe che portavano a un ingresso a primo piano munito di caditoia, dal quale ha uguale protezione una finestra dello stesso primo piano; i fabbricati facenti parte della Masseria Maime, furono chiusi da un alto muro a secco, la torre era sul davanti.
Inoltre lo studioso afferma che questa modalità di costruzione si estese anche al centro abitato creando così la soluzione delle case-fortezza di cui si hanno due esempi nel centro antico di Torchiarolo, presumibilmente del XVII secolo. Altri studiosi fanno invece risalire i due edifici al XVI secolo. Si tratta della corte di San Domenico (che prende il nome dal santo affrescato all’interno della nicchia posta esternamente, accanto all’arco) e della corte Pattini (che prende il nome dall’attuale famiglia di appartenenza). Entrambe sono dotate di caditoia e barbacani su un ampio e spesso arco di ingresso a tutto sesto. All’interno del cortile di Corte San Domenico, a ridosso del muro di facciata, la scala di pietra permetteva l’accesso alla caditoia. Le due case-fortezza sono collocate rispettivamente l’una in via Principe Amedeo a ridosso della Chiesa Matrice e l’altra nell’attuale via Umberto I. Di conseguenza entrambe si affacciano su quella che anticamente era la via Traiana-Calabra.
Gli edifici religiosi
La cappella della Madonna delle Grazie si trova sulla strada che conduce al mare e al luogo di pellegrinaggio dedicato alla Madonna di Galeano. Venne eretta nel 1750 per volere di Grazia Maria della Narola (o Della Narda), assegnandole anche dote e beneficio terriero. La facciata è austera, semplice con un ingresso centrale; in asse col portale una finestra, superiormente un piccolo campanile. All’interno è un unico altare sulla parete di fondo sovrastato da un dipinto murale della Vergine che allatta il Bambino. È voltata a botte.
La cappella della Madonna di Galeano, viene menzionata nella visita pastorale di mons. Spinelli del 1792, in quelle di mons. Nicola Caputo del 1822 e del 1830, infine nella relazione di mons. Luigi Zola del 1886. Sorge sul luogo del ritrovamento di un’icona bizantina.
Già nel Seicento vi era una cappella con stanzetta attigua con funzione di sagrestia, e di cella abitata dall’eremita. Di tale costruzione non si hanno informazioni se non che l’ingresso era rivolto a ovest, mentre il secondo edificio di nuovo impianto presenta tuttora il portale orientato a sud. Le descrizioni risalenti al Sette e all’Ottocento definivano l’originario impianto di modeste dimensioni, rettangolare, il tetto a canne e un unico altare col quadro della Madonna che nel Settecento era su tela, nel 1830 risulta essere un dipinto a muro con vetrina, come ancora oggi. La riedificazione avvenne nel 1886 su invito di mons. Zola dal momento che i muri di pietre e di calce erano pericolanti. Rimase intatto solo il muro con annesso l’altare della Madonna e la sagrestia alle spalle della quale fu rifatto il tetto, che da canne passò a volta. La cappella fu anche leggermente ampliata.
La cappella di Sant’Antonio venne edificata per volere di Diego Origlia che donò il suolo a ridosso dell'abitato, presso la
Cappella della Madonna di Galeano cosiddetta porta orientale, per la costruzione della chiesa, che fu seguita dal figlio chierico Bartolomeo Origlia. L’inaugurazione avvenne il 30 maggio 1680.
La cappella è lunga 9 metri e larga 3, l’unica navata presenta una copertura con volte a botte lunettate. Originariamente era dotata di due porte, la seconda venne definitivamente chiusa nel 1900 creando al suo posto una nicchia in cui è collocata attualmente la statua di Santa Lucia. In facciata è un oculo allineato col portale e lo stemma, accanto alla porta e l’acquasantiera. Il portale principale, iscritto in una cornice di pietra intagliata con motivi geometrici, completato superiormente da un architrave a dentelli, è sormontato dallo stemma della famiglia Della Monica di Lecce, titolare di tutte le cappelle dedicate a sant’Antonio da Padova. La facciata è completata dal piccolo campanile.
La Matrice di Maria SS. ma Assunta
Per tutto il XVI secolo ad assolvere la funzione di Matrice fu la piccola chiesa di San Nicola. Secondo quanto afferma Ciccarese la costruzione della chiesa (non il suo ampliamento), risale al 1590 sull’antica chiesa di tre o quattro secoli precedente il cui impianto secondo l’autore, allo stato attuale non sarebbe più leggibile.
Con molta probabilità originariamente si trattava della cappella del cimitero: la cappella era orientata est-ovest, mentre il cimitero doveva trovarsi sul lato nord, come ha suggerito il ritrovamento di resti umani al di sotto del sagrato durante gli ultimi restauri. Negli anni in cui Torchiarolo era alle prese con la questione economica relativa alla fabbrica sacra, il casale era di proprietà della famiglia Delli Falconi, in successione Fulco, Marcantonio e Vittoria (1589-1624), detta la
“Baronissa”, sotto la quale si svolsero gran parte dei lavori. È posta all’incrocio di via Principessa Elena e via Largo La Chiesa.
La chiesa, nel corso della sua storia, ha subìto molte modifiche per adeguarsi allo sviluppo del casale. La prima redazione riconoscibile, in seguito agli ultimi restauri, consiste in un edificio orientato sud-nord entro l’ambito della navata centrale tra il secondo e il quinto pilastro.
Un primo intervento sull’edificio è attestato da documenti che riguardano le offerte ricevute dall’amministrazione civica riguardo alla costruzione della nuova Matrice. Una donazione di dieci ducati verrà effettuata nel 1594 dal Barone stesso di Torchiarolo, Falco de Falconibus, tramite il suo testamento di morte dettato il 13 settembre di quell’anno (morirà il successivo 3 ottobre).
La prima descrizione della chiesa risale al 1602, ed è stata stilata in occasione della Visita pastorale di mons. Scipione Spina il 18 novembre..
Questa descrizione sembra fare riferimento alla seconda redazione riconoscibile della chiesa: quindi la riedificazione di cui parla Ciccarese, attestata al 1590 circa, consiste in realtà in un ampliamento. Inevitabilmente la prima conformazione dell’edificio sacro, che l’autore definisce ormai illeggibile, la si deve identificare con la struttura a un’unica navata inserita tra il secondo e il quinto pilastro dell’attuale navata centrale.
Dalla visita pastorale emerge l’impianto a croce latina, la presenza del transetto, al quale si accedeva tramite alcuni gradini e due navate laterali, sulle quali furono aperte le rispettive porte, una orientata a ovest, l’altra a est, e dove vennero realizzati i due altari rispettivamente quello della Madonna di Costantinopoli a destra e quello ancora disadorno, a sinistra. L’altare maggiore rimaneva addossato alla parete per l’assenza del coro.
Nel 1630 era stato fatto erigere l’altare della Madonna del Carmine per devozione dei fratelli sacerdoti don Giovanni Camillo e don Francesco Antonio Faraco.
Negli stessi anni era stato fatto costruire il fonte battesimale in pietra e legno, posto accanto all’ingresso principale. Il fonte presenta numerose decorazioni floreali e tracce di doratura sui fregi posti tra la parte superiore, in legno, e la parte inferiore, in metallo.
Tra il dicembre del 1646 e il gennaio 1647, la chiesa fu interdetta, probabilmente perché non era stata ancora realizzata la sepoltura dei sacerdoti.
Secondo Ciccarese in seguito alla pestilenza, scoppiata in Terra d’Otranto nel 1656, venne realizzato un primo altare dedicato a Sant’Oronzo. L’esistenza di tale altare e degli altri due precedentemente citati, quello della Madonna di Costantinopoli e quella della Madonna del Carmine, è possibile soltanto in un edificio come quello attuale in cui le navate laterali accolgono nelle loro quattro campate tre altari e una porta laterale.
Nella visita pastorale di mons. Antonio Pignatelli avvenuta nel 1676 non viene ancora citato l’abside.
Dalla visita pastorale di mons. Michele Pignatelli nel 1683 emerge la costruzione dell’altare della Vergine Immacolata tra quello di Sant’Oronzo in pietra e quello della Madonna del Carmine.
L'importante intervento di ristrutturazione dell’intero edificio che Ciccarese colloca intorno alla metà del XVIII secolo, in base proprio alla data di costruzione degli altari lungo le navate e in base agli scavi realizzati durante gli ultimi lavori di restauro, è da collocare almeno ad un secolo prima, benché non se ne faccia menzione nelle visite pastorali. Conseguentemente le planimetrie proposte dal Ciccarese nel suo testo risultano inattendibili.
Il progetto consiste non in un ampliamento ma in un prolungamento con due campate oltre quelle già esistenti. Inevitabilmente anche la facciata venne rimossa come attesta la giuntura che corre verticalmente lungo i prospetti laterali dell’edificio. Verso la fine del XVIII secolo, in seguito alla sostituzione dell’antico altare secentesco con un altro altare in pietra, si può attestare solo l’aggiunta dell’abside con relativa cantoria e orchestra per l’organo. Le modifiche apportate nel XVIII secolo costituiscono la redazione finale della chiesa.
L’ordine inferiore della maestaosa facciata è scandito da sei lesene con capitelli compositi ed è arricchito di cornici in pietra e targhe, nicchie con decori a bassorilievo e di un portale architravato al centro, sormontato da una lunetta con cornice aggettante dalle modanature lisce. Il registro superiore, arricchito da volute con pinnacoli, presenta la stessa scansione delle lesene del registro inferiore, anche in questo caso con capitelli compositi. Lateralmente, tra le lesene, si aprono due nicchie, mentre al centro si apre una finestra arcuata, con una cornice aggettante e arricchita intorno da una decorazione in pietra intagliata, sormontata da un arco spezzato. L’architrave sorregge un timpano tra due pinnacoli che accoglie un orologio tra due volute.
L'articolazione planimetrica presenta tre navate con ampio transetto e area presbiterale pronunciata. Le coperture sono voltate tutte a spigolo e nella navata centrale presentano uno smusso negli spigoli delle vele. Nel claristorio si aprono quattro finestre arcuate per lato che illuminano la navata centrale. Le navate minori invece sono scarsamente illuminate, ricevono la luce da due finestroni, posti nel transetto in alto.
Le navate laterali sono scandite da quattro campate comunicanti attraverso ampi archi a tutto sesto.
Gli altari delle navate laterali sono addossati alle pareti e inscritti in archi che riprendono la stessa cornice di quelli che si affacciano sulla navata principale. Presentano nel complesso le stesse caratteristiche, tranne l’Altare di Sant’Oronzo. L’altare ha una ricca decorazione in stucco e presenta una decorazione floreale simile a quella del Battistero e una policromia che doveva essere presente anche negli altri altari come dimostra anche il restauro dell’Altare di San Vito. La tela di Sant’Oronzo al centro, nella parte inferiore, è delimitata da una testa di angelo alato, nella parte superiore da un’iscrizione. Ai lati della tela sono due paraste arricchite da un motivo vegetale, a ridosso della base e a ridosso del capitello. La cimasa è costituita da un tondo che doveva contenere una tela di piccole dimensioni.
Nel transetto sinistro, di particolare rilievo è l’Altare del Crocifisso che studi recenti hanno datato al XVII secolo (a differenza di quanto afferma il Ciccarese nella sua trattazione, datandolo al 1821). L’altare è in pietra leccese. La mensa è sorretta da volute alle quali sono addossate teste di angeli alati. Al centro, una cornice intagliata nella pietra, arricchita da pochi elementi decorativi, incamera il tabernacolo che custodisce l’antico e leggendario Crocifisso ligneo.
Il tabernacolo è impreziosito da una decorazione in oro e anteriormente dalla presenza di colonnine salomoniche. Tra la cornice e le colonne dell’altare vi è una decorazione intagliata nella pietra che un recente restauro ha portato alla luce. Ai lati esterni delle colonne due mensole a volute sorreggono due statue: quella di Sant’Irene e quella di Sant’Oronzo, a testimonianza del legame tra il casale e la città di Lecce. La trabeazione continua, ingentilita da una fine decorazione appena accennata e intagliata, ospita al centro un’iscrizione delimitata da due angeli: QUI ELUCIDANT ME VITAM AETERNAM HABEBUNT (“Coloro che mi danno lustro avranno vita eterna”), con lo scopo di commemorare la confraternita del Crocifisso per la realizzazione del maestoso altare.
I dipinti murali presenti nella chiesa sono: San Paolo; San Pietro; Ecce Homo; l'affresco dell'Assunta in cielo; la Flagellazione; Gesù in preghiera nell'orto degli ulivi; la Fuga in Egitto; la Morte di Santa Filomena.
Al 1825 risale la costruzione dell’altare di San Vito; al 1821 l’altare di San Francesco d’Assisi; nel 1870 si è proceduto alla sostituzione della vecchia pavimentazione, alla pittura di quadri a tempera sulle pareti perimetrali, di cui sono sopravvissuti solo alcuni punti e alla creazione della sagrestia a destra dell’altare maggiore.
Al 1934 risale la sostituzione dell’altare di San Francesco d’Assisi con un altro altare dedicato al Sacro Cuore di Gesù, completamente in marmo; al 1942 risale la raffigurazione parietale di Cristo spirante in croce sopra l’altare del Crocifisso. Tra il 1943 e il 1944 tutta la chiesa venne decorata; fu sostituito l’antico altare maggiore in pietra leccese e il nuovo altare in marmo venne arretrato all’interno dell’abside; venne anche rimosso il pulpito in legno. L’altare maggiore venne successivamente spostato in fondo all’abside in seguito alla rimozione della piccola cantoria e dell’organo; sulla parete di fondo dell’abside venne dipinta la Madonna dell’Assunta dal pittore Perrone di Squinzano.
Tra il 1967 e il 1978 venne costruito il nuovo altare a mensa secondo la nuova forma liturgica; venne ripresa la decorazione della navata centrale e della zona absidale ad opera del pittore De Donno di Maglie; si procedette al rifacimento del pavimento con lastre in pietra di Trani.
Tra gli ultimi interventi, negli anni Ottanta del Novecento, la sostituzione dell’antiporta ormai degradata con un’altra più piccola e priva di cantoria superiore.
La chiesa del Rosario
La chiesa sorge in piazza a poca distanza dalla Matrice e nelle immediate vicinanze del palazzo baronale. I lavori per la costruzione cominciarono il 7 ottobre 1621 per devozione del figlio di Vittoria Delli Falconi, il barone Alessandro Raho-Pedaci, che ebbe particolare cura della chiesa37. Nella visita pastorale del 10 maggio 1640 da parte di Monsignor Luigi Pappacoda appariva ben tenuta: “È ben disposta, muri puliti e bianchi, tetto a canne. Ha due porte le cui chiavi sono custodite dal barone Alessandro Pedaci e dal cappellano. Ha tre sepolture: una per sé, per i figli e le loro famiglie, la seconda per i suoi servi e le loro famiglie, la terza per gli altri. Il pavimento è in cemento. Ha tre altari: l’altare maggiore con un grande quadro della Madonna del Rosario dipinta su tela, quello a sinistra dedicato a Sant’Antonio di Padova e quello a destra dedicato a San Vito Martire”. Inoltre la chiesa era dotata di un campanile con una sola campana. Divenuto barone di Torchiarolo nel 1648, Giuseppe Angrisani, come il suo predecessore, fu attento alla manutenzione della chiesa. A lui infatti si devono ulteriori interventi intorno al 1685, per renderla più accogliente e rispondente al culto. Venne eretto l’altare di San Giuseppe Patriarca e l’altare intitolato a Santa Caterina Vergine e Martire. Il barone Angrisani si fece ritrarre nella tela dell’altare di San Giuseppe ai piedi del santo. In una relazione stilata agli inizi del Settecento si legge: "lunga circa 15 metri e larga 7 col pavimento in astrico, ebbe ad avere 5 altari invece di 3: sempre al centro l'altare maggiore dedicato alla Vergine del Rosario; sul lato destro, guardando dalla porta principale d'ingresso, più in là l'altare dedicato a S. Giuseppe Patriarca con una tela del santo, fondato dal barone Giuseppe Angrisani alcuni anni prima
della sua morte, e più in qua l'altare a S. Antonio di Padova con un quadro su tela, mentre sul lato sinistro l'altare di S. Vito, e più in qua l'altare dì Santa Caterina Vergine e Martire eretto per devozione di Caterina Tarantini. I suddetti altari hanno dei legati o su terre o su denaro per messe da celebrare. In specie per l'altare di S. Giuseppe D. Leonardo Pennetta nel 1743 ha pensato per un buon legato”.
Dopo la nomina a principe di Torchiarolo di Ambrogio Caracciolo da parte del Regio Fisco il 16 aprile del 1726, per circa 150 anni sulla chiesa non vennero eseguiti interventi di manutenzione che potessero evitare l’inagibilità dell’edificio. Ad essere in pessime condizioni era soprattutto il tetto a canne. Bisognerà attendere il 1890 perché venisse recuperata e, dato lo stato di abbandono in cui versava, fu necessaria un‟ importante opera di ristrutturazione.
Grazie a una planimetria redatta in occasione dei lavori di ristrutturazione è possibile avere un’idea dell’aspetto originario della chiesa: un prospetto semplice, al centro un portale allineato con una piccola finestra di forma quadrata; a completare la facciata un campanile di piccole dimensioni. L’interno era costituito da un’unica navata. La zona presbiterale, sopraelevata di alcuni gradini, accoglieva tre altari.
L’opera di demolizione ebbe inizio nel 1890 su iniziativa di don Beniamino Miglietta che avviò i lavori a proprie spese affidandoli a maestranze locali. Il progetto, realizzato dall’ing. Gaetano Bernardini, consisteva nella totale riedificazione del corpo di fabbrica. Si trattava quindi di demolire il vecchio complesso e di sostituirlo con un edificio più ampio: “Il prospetto e le parti interne decorative sono eseguiti in pietra leccese delle cave di Surbo. La zoccolatura, il basamento sul prospetto ed i pilastri interni saranno invece di carparo di Trepuzzi. Oltre il locale destinato per la cappella, in fondo ed a sinistra vi sarà una piccola sagrestia dalla quale, mercé una scala in muratura si potrà accedere sulle terrazze All’ingresso alla cappella sarà costruito un tamburo in muratura ed in legno sostenuto da due colonnine di pietra leccese, il quale servirà per sostegno dell’organo e per potere contenere un certo numero di persone in tempo di funzione. Si accederà al detto tamburo da una scaletta di ferro posta sulla dritta, entrando. L’interno della cappella sarà separato mercé una ringhiera in ferro dal presbiterio, il quale sarà elevato di m 0,60 al di sopra del piano della cappella”38.
La nuova facciata rispecchia le caratteristiche del suo periodo di realizzazione, ha un’impostazione neoclassica, il prospetto si presenta sviluppato in due ordini scanditi da lesene. Quelle dell’ordine inferiore sono lisce, poggiano su un basamento unico e sorreggono capitelli di ordine dorico. Negli spazi esterni si aprono due nicchie con conchiglia. Le lesene che delimitano il portale si impostano su due piani prospettici differenti. Il portale è sovrastato da un fregio con un bassorilievo che presenta al centro una testa di angelo alato. Sul fregio si imposta il timpano con cornice a dentelli.
Il secondo registro si rapporta a quello inferiore tramite un architrave aggettante. Ogni lesena ha il suo basamento, il corpo è rudentato e sorregge un capitello composito. Gli spazi esterni della facciata superiore sono lasciati liberi mentre lo spazio centrale è occupato da un rosone con cornice modanata. L’architrave presenta una cornice a dentelli che si ripete anche nel timpano.
La cerimonia di inaugurazione ebbe luogo il 1° ottobre 1896, ma la chiesa venne restituita al pubblico il 5 novembre 1898, come testimonia un’incisione commemorativa posta all’interno, sulla controfacciata:
D.O.M. TEMPLUM. HOC. AERE. PROPRIO. A. FUNDAMENTIS. EREXIT. SACERDOS. BENIAMIN. MIGLIETTA. ET. DEIPARAE. A. SS. ROSARIO. IOANNES. GIGANTE. EPISCOPUS. HIMERIENSIS. CAL. NOVEMBRIS. MDCCCXCVIII ASSIGNATA. PRO. ANNIVERSARIA. SOLEMNITATE. DOMINICA. II. OCTOBRIS. SOLEMNI. RITU. CONSECRAVIT. (Questo tempio con denaro proprio dalle fondamenta eresse il sacerdote Beniamino Miglietta e dedicato alla Madre di Dio del SS. Rosario il 5 novembre 1898 Giovanni Gigante vescovo di Imera la seconda domenica d'ottobre con rito solenne consacrò)39.
L’interno è costituito, come nel precedente edificio, da un’unica navata, scandita da due campate; il soffitto è voltato a botte; la zona presbiterale è sopraelevata di due gradini come nell’edificio precedente. La navata è divisa dal presbiterio da un alto arco a tutto sesto che scarica il suo peso su paraste dai capitelli con lisce modanature. La campata presbiterale è coperta da una volta a vele. Una cornice a dentelli, all’altezza dei capitelli, percorre l’intero perimetro dell’edificio. Sulla parete a destra dell’altare si apre un ampio matroneo, dotato di balaustra, con un arco a sesto ribassato. Sotto il matroneo è la porta di accesso. Sulla parete a sinistra dell’altare una porta di piccole dimensioni che si affaccia nella corte del Rosario (dal nome della chiesa). All’interno è conservata la tela del 1685 che raffigura il barone Giuseppe Angrisani. L’altare centrale in pietra è rivestito di stucchi dorati.
Secondo il progetto originario del 1890 le campate dovevano essere tre, scandite da paraste scanalate che oggi risultano lisce. La zona presbiterale, sempre sopraelevata di due gradini rispetto al livello pavimentale, doveva essere delimitata da una cancellata. Era stato ideato anche un progetto per l’altare principale, con un timpano a cornice dentellata, sorretto da lesene scanalate su due piani prospettici.
Testi Tratti dal lavoro di ricerca e di tesi dal titolo "Lo Sviluppo Urbano di Torchiarolo e San Pietro V.Co - dalle origini al XIX Sec -" di Lorena Pellegrino, 2013.
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